I trabocchi, in dialetto locale li travocche, sono particolarissime e ingegnose macchine per la pesca da riva, costituite da una piattaforma a palafitta che si protende in mare consentendo di calare una grande rete quadra restando alti sull’acqua.
Presenti in vari punti della costa adriatica, da Chioggia al Gargano, sulla costa abruzzese raggiungono una particolare densità, soprattutto da Ortona fino al Molise.
Essendo architetture spontanee, sfruttano sempre al meglio le caratteristiche ambientali, ma esprimono anche una ben osservata applicazione dei metodi di sostegno elastico delle strutture strallate.
Se infatti la piattaforma di base è una elementare e primitiva palafitta, l’argano per salpare la rete e i pennoni per armarla e sostenerla vengono direttamente dalla cultura delle sovrastrutture strallate delle navi a vela.
Essi costituiscono ancora oggi un elemento di forte fascino che caratterizza il paesaggio delle ripe frentane, oltre che la storia locale.
Il più antico documento che cita i trabocchi è il manoscritto “Vita Sanctissimi Petri Celestini”, redatto nella seconda metà del Quattrocento da un padre Celestiniano, che testimonia come Pietro da Morrone, durante la sua permanenza presso l’abbazia di San Giovanni in Venere a Fossacesia (1240-1243), uscisse spesso per ammirare dal colle “Belvedere” il mare sottostante “punteggiato di trabocchi”.
Nel corso delle operazioni furono impiegati coloni, alcuni immigrati dalla Dalmazia e altri che da qualche decennio si erano già insediati nell’area scarsamente abitata, molti di essi esuli dalle persecuzioni ebraiche avvenute nel nord Europa e prevalentemente provenienti dalla Francia (come i Verì) e dalla Germania (come gli Annecchini). I componenti di queste famiglie erano abili artigiani; in particolare i Verì erano carpentieri pontuaroli, esperti nella costruzione di passerelle adatte al guado dei fiumi, coltivavano e lavoravano anche la canapa e il lino e si dice che abbiano introdotto anche la coltivazione delle arance (li purtihalle tipici della zona, fra i quali il profumato cetrangolo).
Le tecniche divennero a mano a mano più evolute, dall’uso di lunghe fiocine impiegate stando sulle piattaforme, alle reti da posta che venivano messe tra gli scogli e raccolte tramite zattere di fortuna realizzate con canne (lu cannèzzele), fino a migliorare mano a mano le strutture facendole evolvere con l’uso di reti a bilanciere issate da un argano (lu voddavie) posto al centro dell’impalcato. La tecnica di pesca è a vista e consiste nell’intercettare con una grande rete il flusso di pesci che, spostandosi lungo la costa, attraversano le punte rocciose.
Il trabocco al sasso di “Rubbanhille” fu probabilmente il primo costruito dai Verì nel 1777 al quale ne seguirono altri sempre più evoluti; i “Rubeniti” erano gli ebrei appartenenti alla tribù di RUBEN.
Con l’arrivo della ferrovia fra il 1862 e il 1863 si resero disponibili sul territorio nuovi materiali che mutarono radicalmente la struttura del trabocco.
Determinante fu anche l’introduzione del filo di ferro che permise la realizzazione di tiranti più resistenti facendo diventare la struttura più ardita ed i componenti più esili. La successiva ristrutturazione della ferrovia dopo i danni causati dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale rese disponibili spezzoni di binari in ferro che furono impiegati per sostituire i pali in legno conficcati nell’acqua.
Oggi, che la quantità di pesce lungo la costa si è notevolmente ridotta a causa della pesca praticata con metodi industriali; i trabocchi hanno cambiato ancora una volta la loro destinazione d’uso, adattandosi alle mutate esigenze dei tempi e venendo adibiti prevalentemente per la ristorazione.
La piattaforma fondata su palafitte è stata molto ampliata per ospitare i tavoli da pranzo così come la piccola capannetta iniziale, che ospitava l’argano e qualche attrezzo, è diventata una cucina con le necessarie dimensioni.
Sui trabocchi, a differenza che sulle paranze, è ancora possibile salire e sentire il legno delle passerelle scricchiolare nella loro apparente fragilità che sa flettersi all’onda del mare, soffermarsi a parlare con i traboccanti superstiti, eredi di antiche dinastie, per ascoltare le loro storie, sospesi in una dimensione antica.
“Dall’estrema punta del promontorio…, sopra un gruppo di scogli si protendeva un trabocco, una strana macchina da pesca, tutta composta di tavole e di travi, simili ad un ragno colossale… la grande macchina pescatoria composta di tronchi scortecciati di assi e di gomene… biancheggiava singolarmente simile allo scheletro colossale di un anfibio antidiluviano”.
Gabriele D’Annunzio, “Il Trionfo della Morte”, 1894.
A causa dei bassi fondali adriatici essi raramente possono essere costruiti sulla terraferma, avendo bisogno di protendersi totalmente sul mare per conquistare un minimo di profondità delle acque in cui calare la rete. L’accesso dalla terraferma avviene mediante strette ed esili passerelle, anch’esse fondate su pali.
Tipici delle comunità contadine rivierasche, i trabocchi esprimono appieno la cultura terricola di chi li ha ideati e realizzati, di questi “contadini di mare” che non si bagnano neanche i piedi per pescare e che usano il mare come un vero e proprio “orto liquido” dal quale prelevare il fabbisogno giornaliero.
La stessa storia dei traboccanti (così si chiamano gli esercenti dei trabocchi appartenenti ad una serie di famiglie storiche che si passano il trabocco di generazione in generazione) sembra rafforzare anche simbolicamente il superamento di contrapposti sistemi di vita.
Purtroppo, il terremoto ed il successivo maremoto che sconvolsero la costa frentana nel 1627 cancellarono ogni traccia di questo antico precedente, provocando un profondo mutamento geomorfologico. Al tragico evento sismico, che causò circa 17.000 morti, si succedettero inoltre diverse ondate di peste dal 1630 al 1659, provocando l’impoverimento e lo spopolamento dei lidi.
Il trabocco, che attraverso varie trasformazioni arriva fino a noi, prende corpo dalla metà del ‘700 quando tra San Vito e Fossacesia si avviarono lavori di disboscamento e dissodamento dei terreni incolti e furono fatte realizzare impalcature in legno (gli “imposti”) per consentire il carico del legname sulle navi da cabotaggio veneziane.
Essi furono tra i più abili costruttori di trabocchi, e ancora oggi si tramandano la loro storia oralmente: “seme minute da la Frange dentre a ‘na botte” (dove la botte in dialetto locale si dice “vascelle”) facendo intendere che sono arrivati con un’imbarcazione.
I coloni insediatisi con le loro famiglie sulle terre ricevute in proprietà o in uso perpetuo, pensarono di adattare e recuperare gli “imposti” utilizzandoli nella pesca durante i periodi di inattività della lavorazione dei campi.
La bravura dei due traboccanti addetti all’argano sta nel sollevare velocemente il trabocchetto per catturare cefali, spigole, orate ed il pesce azzurro di passaggio. Del resto, il termine trabocco sembra derivi dall’antico provenzale “trabuc” che indicava un congegno per far cadere in trappola qualcuno; da qui il diminutivo “trabuquet” ossia trabocchetto, termine con cui attualmente viene chiamata la rete di queste strutture.
Le ferrovie piantumarono le scarpate soggette a smottamenti con la Robinia o Acacia Spinosa, una specie arborea proveniente dall’Australia infestante e di rapido accrescimento; il duro legno di Robinia, usato per travi e pilastri per il suo fusto dritto, offriva prestazioni superiori rispetto alla quercia ed al leccio precedentemente impiegati e sopportava benissimo la salsedine.
Ancora una volta l’antica abitudine al riutilizzo dei materiali di recupero, tipica delle popolazioni contadine, insieme all’abilità inventiva di questi artigiani, viene impiegata per dar vita e sostanza ad una nuova e più evoluta macchina da pesca, tale da poter giungere fino a noi.
Una recente legge regionale ha disciplinato il recupero e la valorizzazione dei trabocchi abruzzesi al fine di conservare l’attività di pesca per diletto e scopi dimostrativi, oltre che per favorire il consumo del pescato locale.
I trabocchi sono un patrimonio identitario della costa abruzzese da custodire e tramandare in quanto testimoni di una peculiare cultura che deriva la sua originalità dal mescolarsi di conoscenze pescatorie ma anche artigiane e contadine.
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